Iniziati nel 1908 da Mons. Furlan, su progetto dell’ingegnere Guido Dall’Armi, i lavori di realizzazione del Duomo ebbero una sosta durante la grande guerra.

Dopo il 1918 i lavori vennero ripresi e mai più interrotti.

Alla morte di Mons. Furlan (1939), la chiesa era quasi completata esternamente, però mancavano alcune vetrate e tutte le volte a crociera delle navate, del transetto e del presbiterio.

Il nuovo prevosto, Mons. Daniele Bortoletto, con la direzione dell’architetto Piero Celotto, riuscì a portare a termine quello che era stato il grande sogno del suo predecessore. Eravamo ormai nel 1964. Per riempire le fondazioni occorsero ben ottomila carri di ghiaia e ventidue vagoni di cemento, di ottanta quintali l’uno. I carri, trainati da buoi, erano quelli dei contadini dei vari coltelli (frazioni) che, a turno e gratuitamente, si recavano nel gretto del Piave, a raccogliere la ghiaia.

Mons. Furlan, per trent’anni, seguì con fermezza e con giovanile entusiasmo i lavori, sempre pronto a dare consigli preziosi, ad incoraggiare, a infondere fiducia nei lavoratori, con la sua parola, col suo breviario e col suo Rosario in mano. C’è un episodio che vale la pena riportare: il livello del pavimento della chiesa ed del suo piazzale era talmente basso che non bastarono, per portarlo a quello desiderato, tutti i materiali di ingombro, di demolizione, di scarico ecc., del paese.

Il Prevosto, comunque, non si perse d’animo e, ricordando le parole del Battista: Omnis vallis implebitur et omnis mons et collis humiliabitur, decise che, per colmare la valle, occorreva spianare una collina e fece spianare, appunto, un’intera collinetta a nord della vecchia prepositurale (a sinistra del cimitero vecchio) quasi addossata alla casa del campanaro e dispose, quindi, che tutto il terreno ricavato venisse trasportato nell’avvallamento. Iniziò, così, “una processione di carri che, in pochi mesi trasformò in un bel cortile rustico lo sperone del colle invadente, ed innalzò, al livello voluto, il pavimento della chiesa e del suo piazzale. Il materiale trasportato dalla collina e da altri luoghi, fu valutato circa diecimila metri cubi. Era la fede che trasportava le montagne” (R. Squizzato, Mons. G. Furlan, Venezia, Ed. Libreria Emiliana, 1940).

 

LO SPAZIO ESTERNO

 

Come immagine in se stessa conclusa, isolata dal contesto urbanistico, il Duomo ci appare come una “fortezza di Dio”: un monumentale volume chiuso nel suo ritmo di blocchi rigidi. L’alternarsi di ampie finestre e il grande rosone nella facciata non diminuiscono, peraltro, la prima impressione di “scontrosa” chiusura, quasi di isolamento dallo spazio circostante.
Anche la parte absidale, forse la più suggestiva e slanciata verticalmente verso l’infinito, pare, alla fine, fondere la rude plasticità dello stile architettonico romanico con l’elegante ed aristocratico ritmo “linearistico” dell’architettura gotica. Il Duomo di Montebelluna sorge in un momento di profonde trasformazioni artistiche e, fino a non molto tempo fa, poteva venire giudicato, sul piano estetico, piuttosto severamente.

Oggi dopo le proposte dell’architettura post-moderna, noi guardiamo al Duomo di Montebelluna con occhi diversi da quelli di un tempo, pur non apprezzando in pieno certe soluzioni stilistiche, perché mancanti spesso di quella organicità strutturale o di quella “verità” interna caratterizza di certi edifici religiosi neogotici.

Nell’insieme, tuttavia, l’opera ci appare profondamente ispirata da autentico slancio religioso. Uno slancio che si concretizza, sul piano formale, attraverso un’attenta e rigorosa distribuzione di pieni e di vuoti, di superfici lisci e di volumi aggettanti che esaltano, per così dire, e in chiave quasi popolaresca, certi dettagli decorativi anch’essi, del resto, mai spinti verso riprese di un neogotico “fiorito”. Insomma equilibrio e misura, sapienza e tecnica e gusto decorativo, improntati ad una sobria eleganza, conferiscono all’immagine estetica del Duomo una sua convincente fisionomia stilistica, uno slancio mistico rude, persino popolaresco, e tuttavia non privo di una sua dignitosa e quasi solenne tensione verso i valori eterni dello spirito.

Gli elementi fondamentali, che caratterizzano lo spazio esterno, sono l’abside e la facciata, la quale si armonizza, con sensibile aderenza, allo spazio interno. Essa, infatti, è divisa verticalmente in tre zone corrispondenti alle tre navate interne.

Tra il 1942 e il 1945, furono realizzate e messe in opera le tre porte. Eseguite in ferro sbalzato dalla Ditta Fagherazzi di Venezia, sul disegno del Prof. Monetti, le porte laterali raffigurano scene, distribuite su otto pannelli per ogni porta, ispirate ai principali episodi della vita di Cristo, come figure del Vecchio Testamento. La grande porta centrale è decorata invece, con scene ispirate alla vita di Maria Vergine.

Il rosone, sopra il portale centrale, impreziosisce ed attenua il senso di pesantezza e di severa consistenza volumetrica della facciata. Il profilo stesso della facciata sembra isolarsi orgogliosamente dallo spazio circostante, in quanto le cornici terminali,come invece era previsto nel disegno originale del prof. Dall’Asta. Inoltre, vicino alla semplicissima sporgenza in cemento di recente costruzione (1980), non c’è neppure la teoria di archetti ogivali pensili che ritroviamo, invece, lungo tutto il perimetro della chiesa appena sotto il cornicione del tetto